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    Monday, May 9th, 2016 Europe Day has been celebrated in the West. In countries such as Poland, the Czech Republic or Hungary, however, 9th May is commemorated as the day of the capitulation of Nazi Germany and the end of the Second World War. For the peoples of those countries May 9th , 1945 also meant the beginning of Soviet supremacy which lasted 45 years, and in some respects – given the number of victims sent to the gulags or killed without a trial or after a show trial – it was an experience no less painful than war.

    That gap between a day of celebration and the day of the defeat in front of the communist regime is diplomatically liquidated with the vague definition of “different awareness” but 9th May, 2016 just highlights precisely that the new members of the EU, as the ones of the old Ceca, do not share the same program for the future of the “common European home”.

    While Italy has the duty to rescue people at sea, Poland does not want to accept immigrants, while declaring itself ready to contribute to help them in their country, apparently forgetting that this, at least for the time being, means: in the rubble and under the bombing. It must be said that the Polish government is not evil, nor particularly cynical. Simply it does not intend to give up 35% of the consent democratically and perfectly earned in last October elections. In all probability that consensus will remain unchanged for a long time, and certainly it will not be changed by any march or demonstration, like the one in Warsaw on the last 7th May, whether it be 45,000 people (according to the police) or 250,000 (as claimed by the organizers), organized in the capital or in another place, at any date, for Europe, against threats to national sovereignty, or whatsoever else.

    Democracy in Poland is not in check. If anything, it has reached deadlock, threatened by the lack of dialogue between the government and civil society.

    But just this “let’s do and let’s not talk” increases once again the consent for the government. Years of Soviet dictatorship, preceded from Nazi occupation, occurred only twenty years after the reconstitution of the Polish state, disappeared from the maps of Europe for over 123 years, under the rule of Russia, Prussia and Austria, made it impossible a balanced ripeness of the national identity. Today the Poles seem to prefer the concrete political action, although for historical reasons they seem to be really attached to the ideals of the love for their country, national sovereignty, solidarity and honor. These concepts, lost by now in the West, are however well understood in the new EU member states despite being unlisted, and even if they cannot not be quantified as the spread, let alone with respect to GDP.

    Europe, though it has put Maastricht limitations to all countries participating in the common market, has never been able, or rather it has never really wanted, to define its founding values. And this, even though in the world values are fading, increasingly overshadowed by global competitiveness and competition indexes, today makes it even weaker.

    Today this Europe, forgetting Greece (which should well receive some support, if only for the sole purpose of keeping the EU united), asks everyone to recognize “common” ideals. But what values they are, and where they come from, it is unknown. The situation would be different if these issues had been discussed before, if some ideal had managed to sneak in the Maastricht Treaty or at least in the Lisbon Treaty, if it were some time mentioned in the Basel 2 … Then the Poles, like other citizens of EU countries (and also of those belonging to the old Ceca) could have at least perceived their existence, they would have known them, if only hearsay. And perhaps it would have been easier to recall the peoples and their governments the duty to welcome the stranger.

    Pope Francis constantly seeks to recall the main rules of human and even Christian behaviour, but today the flow of information has by now reached such intensity that his words are often submerged by other cries or shouts.

    Coming back to Poland, known to all as “absolutely catholic”, the question of the episcopate’s position on refugees who need (and we all know) emergency aids and all other aids, comes to mind. And here we must recognize that, between the pastoral concern and the natural sympathy for a government which openly supports the idea of ​​a confessional state, it is not easy to find the “right way” to indicate to the people who are afraid of foreigners. The Polish episcopate so far has therefore spoken little of refugees. And when it raised the issue, it has been disappointed by the lack of responses from civil society. And it is well aware, moreover, that in the collective memory of Poles, handed down through the centuries – and the more incisive the longer the years of foreign oppression have been (tsarist, fascist or communist) – foreigners have not left a good memory.

    Lunedì 9 maggio l’Occidente ha celebrato la Festa dell’Europa. In Paesi come Polonia, Repubblica Ceca o Ungheria, però, il 9 maggio è ricordato come il giorno di capitolazione della Germania nazista e la fine della Seconda guerra mondiale. Per le popolazioni di quei Paesi il 9 maggio 1945 ha significato anche l’inizio della supremazia sovietica durata ben 45 anni, e sotto certi aspetti – visto il numero delle vittime mandate nei gulag o trucidate senza alcun un processo o dopo un processo farsa – è stata un’esperienza non meno sofferta di quella della guerra.

    Diplomaticamente quel divario tra un giorno di festa e quello della sconfitta davanti al regime comunista viene liquidato con la vaga definizione delle “sensibilità diverse”, ma il 9 maggio 2016 mette proprio in evidenza che i nuovi membri dell’Ue e quelli vecchi della Ceca non hanno lo stesso programma per il futuro della “casa comune europea”.

    Mentre l’Italia ha il dovere di soccorrere gli uomini in mare, la Polonia non vuole accogliere gli immigrati, pur dichiarandosi pronta a contribuire ad aiutarli in casa loro, apparentemente dimenticando che questo, almeno per il momento, significa tra le macerie e sotto i bombardamenti. Va detto che il governo polacco non è malvagio, e nemmeno particolarmente cinico. Semplicemente non intende rinunciare al 35% circa dei consensi guadagnati democraticamente e a regola d’arte nelle elezioni di fine ottobre scorso. Con ogni probabilità quel consenso rimarrà immutato a lungo, e sicuramente non potrà modificarlo alcuna marcia o manifestazione, come quella a Varsavia il 7 maggio scorso, sia essa di 45mila (secondo la polizia) o di 250mila (come sostengono gli organizzatori) persone, organizzata nella capitale o in un altro luogo, in qualunque data, per l’Europa, contro le minacce per la sovranità nazionale, o a qualsiasi altro titolo.

    La democrazia in Polonia non è sotto scacco. Semmai è in stallo, minacciata dalla mancanza del dialogo tra il potere e la società civile.

    Ma proprio questo “fare e non discutere” accresce ancora il consenso per il governo. Anni di dittatura sovietica, preceduta dall’occupazione nazista, sopravvenuta a soli vent’anni dalla ricostituzione dello Stato polacco, sparito dalle carte dell’Europa per ben 123 anni, sotto il dominio di Russia, Prussia e Austria, resero impossibile un’equilibrata maturazione dell’identità nazionale. Oggi i polacchi sembrano prediligere la concretezza dell’azione politica, anche se per cause storiche sembrano essere sempre attaccatissimi agli ideali dell’amor patrio, sovranità nazionale, solidarietà e onore. Tali concetti, smarriti ormai in Occidente, sono comprensibilissimi nei nuovi Paesi membri dell’Ue, nonostante non vengano quotati in borsa, non possano essere quantificati come lo spread, né tanto meno valutati rispetto al Pil.

    L’Europa, sebbene abbia messo dei paletti di Maastricht a tutti i Paesi aderenti al mercato comune, non ha saputo o meglio non ha mai voluto davvero definire i propri valori fondanti. E questo, anche se nel mondo i valori sbiadiscono, sempre più offuscati da indici di competitività e concorrenza globali, oggi la rende ancora più debole.

    Oggi quest’Europa, dimenticandosi della Grecia (alla quale andrebbe pure un qualche sostegno, se non altro per il solo scopo di mantenere unita l’Ue), chiede a tutti di riconoscere degli ideali “comuni”. Quali siano però, e da dove spuntino, non si sa. La situazione sarebbe diversa se di questi temi si fosse discusso prima, se qualche ideale fosse riuscito a intrufolarsi nel trattato di Maastricht o almeno in quello di Lisbona, se fosse citato qualche volta insieme al Basilea 2… Allora i polacchi, come gli altri cittadini dei Paesi Ue (e anche dei vecchi della Ceca), ne avrebbero almeno avvertito l’esistenza, li avrebbero conosciuti, se non altro “per sentito dire”. E forse sarebbe stato più facile rammentare ai popoli e ai loro governi il dovere di accogliere lo straniero.

    Papa Francesco incessantemente cerca di richiamare le principali regole di comportamento umane ancorché cristiane, ma oggi il flusso delle informazioni ha ormai raggiunto un’intensità tale che le sue parole non di rado vengono subissate da altre grida o schiamazzi.

    Tornando alla Polonia, da tutti conosciuta come “cattolicissima”, viene spontanea la domanda sulla posizione dell’episcopato riguardo ai profughi che necessitano (e lo sappiamo tutti) di aiuti urgenti e di ogni tipo. E qui bisogna riconoscere che, tra la sollecitudine pastorale e la naturale simpatia per un governo dichiaratamente favorevole all’idea di uno stato confessionale, non sia facile trovare la “strada giusta” da indicare al popolo che ha paura dello straniero. L’episcopato polacco dunque finora ha parlato poco dei profughi. E quando ha sollevato la questione è rimasto deluso dalla scarsità delle risposte venute dalla società civile. È ben consapevole, per giunta, che nella memoria collettiva dei polacchi, tramandata attraverso i secoli e tanto più incisiva quanto lunghi sono stati gli anni dell’oppressione straniera (zarista, fascista o comunista che fosse), gli stranieri non hanno lasciato una buona memoria.


    Polacy boją się obcych

    W poniedziałek 9 maja 2016 r. Zachód świętował Dzień Europy. W krajach takich jak Polska, Republika Czeska, czy Węgry 9 maja to rocznica kapitulacji III Rzeszy i koniec II wojny światowej. Dla mieszkańców tych krajów 9 maja 1945 r. to także początek dominacji sowieckiej która ciągnęła się przez 45 lat i pod pewnymi względami, zważywszy liczbę zesłanych do łagrów i zamordowanych bez żadnej rozprawy, lub po sfingowanym procesie, nie mniej trudny od rzeczywistości wojennej.

    W języku dyplomacji dzień radosnego święta i rocznicę wprowadzenia reżymu komunistycznego dzieli tylko “różnica wrażliwości”, ale 9 maja 2016 r. jasno pokazał, że nowi członkowie UE i ci starzy, należący niegdyś do Europejskiej Wspólnoty Węgla i Stali (EWWiS) nie realizują tego samego planu budowy “wspólnego europejskiego domu”.

    Włochy starają się spełnić swój obowiązek i nieść ratunek “tym, co na morzu”. Polska nie życzy sobie imigrantów, chociaż zapewnia, że jest gotowa uczestniczyć w pomaganiu im w ich własnych krajach, najwyraźniej zapominając, że przynajmniej na razie oznacza to pomoc wśród gruzów i pod bombami. Trzeba tutaj zaznaczyć, że polski rząd nie jest z gruntu zły, ani nawet szczególnie cyniczny. Po prostu nie zamierza rezygnować z ok. 35% poparcia, jakie demokratycznie i zgodnie ze wszystkimi regułami sztuki uzyskał w wyborach w październiku zeszłego roku.   Najprawdopodobniej poparcie to nie zmieni się jeszcze długo, a z pewnością nie zmieni go żaden marsz ani manifestacja, jak ta z 7 maja w Warszawie, niezależnie od tego, czy uczestniczyło w niej 45 tys (według policji) czy 250 tys. (według organizatorów) osób, w stolicy czy w jakiejkolwiek innej miejscowości, w tym, czy innym terminie, na rzecz Europy, przeciwko zagrożeniom suwerenności, czy pod innymi hasłami.

    Polska demokracja nie jest zagrożona. Jeśli już, to znalazła się w sytuacji patowej, wobec braku dialogu przedstawicieli władzy ze społeczeństwem obywatelskim. Jednak właśnie owo “działać, a nie gadać” jeszcze bardziej wzmacnia poparcie dla rządu. Długi okres dyktatury sowieckiej, poprzedzonej hitlerowską okupacją, która nastąpiła po zaledwie dwudziestu latach odradzania się państwowości kraju, wymazanego z map Europy i całkowicie podporządkowanego Rosji, Prusom i Austrii na 123 lata, uniemożliwiły zrównoważone dojrzewanie tożsamości narodowej. Dzisiaj Polacy wybierają konkretne działania polityczne, mimo że z powodów historycznych wciąż są bardzo przywiązani do ideałów miłości ojczyzny, suwerenności państwowej, solidarności i honoru. Te ideały, choć słabo już rozumiane na na Zachodzie, nadal dobrze rozumieją mieszkańcy nowych państw członkowskich Unii, choć przecież nie są notowane na giełdzie, nie są policzalne jak spread, ani też nie można ich oszacować pod kątem wpływu na PKB.

    Europa, chociaż w Maastricht stawiała warunki wszystkim krajom członkowskim wspólnego rynku, nie umiała, lub raczej nigdy nie chciała precyzyjnie określić własnego systemu wartości podstawowych. I przez to teraz, kiedy na całym świecie globalne wskaźniki konkurencji coraz bardziej zacierają wartości, jest jeszcze słabsza.

    I dzisiaj ta sama Europa, zapominając o Grecji (którą można by wesprzeć jeśli nie z innych powodów to w imię jedności UE) żąda od wszystkich swoich członków uznania “wspólnych” ideałów. Co to za ideały jednak i skąd się biorą, nie wiadomo. Sytuacja byłaby inna, gdyby o tych sprawach dyskutowano wcześniej, gdyby jakiś ideał zdołał wcisnąć się do Traktatu z Maastricht albo przynajmniej z Lizbony, gdyby mówiono o nim lub choć raz wspomniano przy okazji umowy Bazylea II. Wtedy Polacy, tak jak i inni obywatele UE (także mieszkańcy krajów EWWiS) przynajmniej cokolwiek by wiedzieli, znaliby takie ideały przynajmniej ze słyszenia. I może byłoby łatwiej przypomnieć mieszkańcom Europy i rządom poszczególnych państw o obowiązku przyjęcia obcych.

    Papież Franciszek nieustannie próbuje podkreślać podstawowe normy człowieczeństwa i chrześcijaństwa. Dziś jednak strumień informacji osiągnął już takie natężenie, że słowa Papieża nierzadko giną w powodzi innych krzyków i hałasów.

    Wracając do Polski, przez wszystkich uznawanej za “kraj bardzo katolicki”: nasuwa się pytanie o stanowisko episkopatu w kwestii uchodźców, którzy potrzebują (i wszyscy to wiedzą) pilnie wszelkiego rodzaju pomocy. Trzeba przyznać, że między troską duszpasterską a naturalną sympatią dla rządu, który otwarcie skłania się w stronę idei państwa wyznaniowego, niełatwo wybrać “słuszną drogę”, by wskazać ją ludziom, którzy boją się obcych.

    Episkopat dotąd niewiele więc mówił o uchodźcach. A kiedy poruszył tę kwestię, spotkało go rozczarowanie: brak odpowiedzi ze strony społeczeństwa. Biskupi są także w pełni świadomi, że w pamięci historycznej Polaków, przekazywanej przez wieki i wywierającej tym silniejszy wpływ, im dłuższy był okres zniewolenia (carskiego, faszystowskiego, czy komunizmu) obcy przybysze nie pozostawili po sobie dobrych wspomnień.

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