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    “Secam wishes to say to the EU that it is not enough to talk about principles, state intentions and point out injustices in Africa”; “it is too easy to throw back on others the responsibility for injustice, if one does not realize how each one of us in involved in it”. These are demanding words in the concluding paragraph of the document that the bishops of the Symposium of Episcopal Conferences of Africa and Madagascar (Secam) presented to the Eu on the occasion of the fourth Africa-Eu Summit last 2-3 April. The bishops had already expressed these reflections and proposals in a pastoral letter issued in February 2013, perhaps with little echo here in Europe.

    What the bishops are asking Europe is “to be a genuine partner to Africa”, supporting African capacity to manage security on the continent: nothing will change if African governments don’t give priority to human security, that is to say “promotion of peace, assurance of sustainable continuous development, aid to individuals with a people-centered approach”.  At the same time African church’s role continues to be “the voice of the voiceless”, denouncing corruption, and injustices and being at people’s side, in their joys and pains, which are numerous. Speaking to Europe, the bishops point out the paradox of the continent’s wealth and the poverty of its people and denounce “the multinational companies which continue to plunder the continent of its resources”, as well as “the unfair rules of trade and finance”. But they also recognize, as a kind of ‘mea culpa’, the fact that “democratic governance is still far from being fully realized in Africa”. Therefore they ask Europe to reform its policy and actions about “company transparency, tax cooperation, natural resources governance, trade reform”, and they call African leaders for democracy and to “consider political action as requiring openness and dialogue to create or strengthen social cohesion”.

    They should also urgently put “poverty eradication as a priority” and which can be successfully carried on only with an adequate use of the continent’s natural resources. Another plague that “mortgage” development is corruption. The bishops are well aware that it is a thoroughly African “cancer”, but they ask Europe at least “not to contribute to the problem directly or indirectly”. There is also the urgent need for credible democratic elections that will allow the transition to peace. The Churches recognize their role in “facilitating dialogue, encouraging participation by all and promoting reconciliation when disputes arise”. Those are meaningful declarations, twenty years after the genocide in Rwanda and they ask for concreteness in today’s drama of the wars fought with no less hatred, in Central African Republic, Nigeria, South Sudan, Somalia, Ethiopia and Eritrea, as the document recalls. And the bishops call African people “to adopt a new look at the stranger, who remains a brother or a sister, beyond the State, political, tribal or religious borders”.

    “Il Secam desidera dire all’Ue che non basta parlare di principi, d’ingiustizie di stato in Africa”; “è troppo facile accusare altri di avere la responsabilità per l’ingiustizia se non ci si rende conto di come ciascuno di noi sia coinvolto”. Sono impegnative queste parole del paragrafo conclusivo del documento che i vescovi del Simposio delle 36 Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam) hanno presentato all’Ue in occasione del quarto Summit Africa-Ue del 2-3 aprile scorsi. Si tratta di riflessioni e proposte che i vescovi avevano già espresso in una lettera del febbraio 2013, forse con poca eco in Europa.

    Ciò che i presuli chiedono all’Europa è di “essere un autentico partner dell’Africa” appoggiando le capacità africane di gestire la sicurezza nel continente: nulla potrà cambiare se non sono i governi africani a dare la priorità alla sicurezza umana, intesa come “promozione della pace, garanzia di sviluppo sostenibile e contino, aiuto agli individui con un approccio centrato sulle persone”. Per contro, il compito della Chiesa in Africa continua a essere quello di “voce di chi non ha voce”, nel denunciare ingiustizie e corruzione e nello stare al fianco della gente, nelle gioie e nei drammi, che sono numerosi. Poiché parlano all’Europa, i vescovi sottolineano il paradosso della ricchezza del continente e la povertà delle sue popolazioni e denunciano “le compagnie multinazionali che continuano a saccheggiare il continente”, come anche “le ingiuste regole del commercio e della finanza”. Riconoscono però anche, in una sorta di mea culpa, il fatto che “la democrazia è lontana dall’essere pienamente raggiunta in Africa”. Così chiedono all’Europa di migliorare ancora le regole sulla “trasparenza delle compagnie, la cooperazione fiscale, la governance delle risorse naturali, il commercio”, mentre ai leader africani chiedono ripetutamente democrazia e di “considerare che l’azione politica richiede apertura e dialogo per creare o rafforzare la coesione sociale”.

    Urgente è porre “l’eliminazione della povertà come priorità”, vittoria possibile con l’uso appropriato delle risorse naturali del continente. Altra piaga che “ipoteca” lo sviluppo è la corruzione. I vescovi sono ben consapevoli che si tratta di un “cancro” tutto africano, ma chiedono all’Europa per lo meno di “non contribuire in modo diretto o indiretto” ad aggravare il problema. C’è anche l’urgenza di garantire che si svolgano elezioni democratiche e credibili per consentire la transizione verso la pace. Le Chiese riconoscono il loro ruolo nel “facilitare il dialogo, incoraggiare la partecipazione di tutti, promuovere la riconciliazione quando emergono dispute”. Dichiarazioni preziose, a vent’anni dal genocidio del Ruanda, che chiedono concretezza nella drammaticità delle guerre che oggi si combattono non con meno odio, nella Repubblica Centrafricana, in Nigeria, Sud Sudan, Somalia, Etiopia ed Eritrea, come il documento stesso ricorda. E al popolo africano i vescovi chiedono di adottare “un nuovo sguardo verso lo straniero, che rimane un fratello o sorella, aldilà dei confini statuali, politici, tribali o religiosi”.

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